L’Africa rischia di diventare una colonia cinese. Il presidente del Parlamento europeo, Antonio Tajani, in una recente intervista è stato chiaro. Pechino replica piccata: “sconvolgente”, e invita Tajani a studiare “i concetti di base” della politica estera cinese. Ma l’Africa non rischia di diventare una colonia cinese, già lo è. E tutto ciò alla faccia del principio di non interferenza negli affari interni di uno Stato. Principio guida di Pechino che ha affascinato intere schiere di dittatori africani. Il portavoce del ministero degli Esteri cinesi, Lu Kang, sempre rispondendo al presidente del Parlamento europeo, spiega che il “concetto di colonialismo non esiste nella politica estera cinese, né nella sua filosofia diplomatica. Quello che unisce i popoli cinese e africano è stata la battaglia del continente africano contro il colonialismo europeo che è all’origine della povertà, delle turbolenze e di alcuni conflitti nell’Africa odierna”. Tutto vero. Ma sessant’anni fa. Ora è tutta un’altra cosa.
La Cina è il primo partner commerciale dell’Africa. Le multinazionali di Pechino proseguono indisturbate la conquista del continente africano - con un piano di investimenti di oltre 60 miliardi di dollari - fatta di infrastrutture, delocalizzazione della produzione e manodopera, in cambio di risorse naturali. E nel 2016 sono cresciuti del 31% gli investimenti diretti non-finanziari delle imprese cinesi in Africa. Un viaggetto nelle miniere di cobalto della Repubblica democratica del Congo è chiarificatore per rendersi conto delle condizioni disumane in cui vivono i lavoratori africani sotto il tallone delle multinazionali di Pechino. Il 60% del cobalto mondiale viene estratto nella Repubblica democratica del Congo, il 90% del materiale estratto finisce in Cina, paese che domina la filiera congolese del cobalto con diverse aziende, tra le quali la Congo DongFang Internetional Minning, che fa pare di Zhejiang Huayou Cobalt, uno dei più grandi produttori di cobalto al mondo. Fosse solo questo. Tra miniere ufficiali e minatori improvvisati, si stima che siano 100mila le persone che scavano con strumenti rudimentali, senza supervisione e misure di sicurezza. Amnesty International stima che si siano almeno 40mila ragazzini, a partire dai 7 anni, che lavorano a 2 dollari per 12 ore al giorno. E tutto questo sotto la supervisione attenta delle maestranze cinesi. Di diritti umani non se ne parla, figuriamoci di diritti dei lavoratori. E i governi africani, che non sono certo in prima linea sul fronte dei diritti da far rispettare, se ne lavano le mani, proprio in virtù del “principio di non interferenza”, che a queste latitudini si traduce in libertà di arricchirsi alle spalle del popolo.Altro capitolo, non certo meno importante, è quello della presenza militare cinese in Africa. La Repubblica popolare cinese è l’ottavo paese per numero di unità militari che partecipano a operazioni di peacekeeping dell’Onu in Africa e il primo tra i cinque membri permanenti del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. Per la prima volta Pechino ha deciso di far combattere i propri soldati in Mali e Sud Sudan. Un modo, questo, per proteggere i propri investimenti. Ma il salto di qualità c’è stato in Nigeria dove le truppe di Pechino si sono messe al fianco del governo di Abuja per combattere Boko Haram. Cooperazione politica, in questo caso, va a braccetto con l’esportazione di armi. E ciò accade non solo in Nigeria. Basta andare nella Repubblica del Congo per vedere come è cambiata, ed è cresciuta, la presenza cinese nel paese. Se nel 2008 per le strade di Pointe Noire, la capitale economica del paese, si vedevano pochi cinesi, col passare degli anni è diventata una presenza “invadente” e molto visibile, non solo nei casinò della città, stracolmi di cinesi dediti al gioco, loro grande passione, ma anche nel creare vere e proprie comunità stabili. Tutto ciò di cui ha bisogno una comunità c’è: negozi con mercanzie cinesi, cibo, case, prostitute. Tutto arriva da Pechino e tutto fa ritorno a Pechino. O almeno quasi.Nel 2004, per esempio, l’Angola era “piena”di cinesi, ma non si vedevano. Chiusi nei cantieri e controllati da uomini armati. Perché? La maggior parte dei lavoratori proveniva dalle patrie galere cinesi (per loro il ritorno in Cina è vietato) fatto sempre negato da Pechino, ma al curioso cronista è stato sempre impedito di sbirciare all’interno dei cantieri per vedere cosa succedeva. Cantieri che sono, tra l’altro, città nelle città. Col passare degli anni il “pudore” è scomparso e la spavalderia ha preso il sopravvento. I mercati tradizionali di Luanda si sono riempiti di mercanzie cinesi. I cinesi stanno occupando prepotentemente anche gli spazi del piccolo commercio. In Africa sta crescendo una classe media dagli occhi a mandorla. Ormai non si nascondono più. Nel 2009, durante la visita di Benedetto XVI in Angola, sono rimasto sorpreso nel vedere che al passaggio del Papa, dai palazzi sono sbucati più cinesi che angolani, non certo per salutare il Papa, ma piuttosto incuriositi dall’uomo vestito di bianco. I grattacieli che definiscono lo skyline di Luanda testimoniano la concretezza degli aiuti di Pechino. E c’è ne uno, forse il più alto, sulla cui cima sventola la bandiera della Repubblica Popolare Cinese.